Clockwork Mind

What follows is the text of the article I published within the magazine Oracoli. Saperi e pregiudizi al tempo dell’Intelligenza Artificiale. The Italian title was La mente nell’ingranaggio.

Non è il primo automa della storia, non è nemmeno davvero un automa, ma è uno dei congegni più suggestivi dell’era moderna, sicuramente il primo a porre il problema della concatenazione e dell’ibridazione tra essere umano e macchina. Per questo il Turco giocatore di scacchi, concepito nel 1769 dal barone ungherese Wolfgang von Kempelen per meravigliare l’imperatrice Maria Teresa d’Austria e la sua corte, resta una delle invenzioni più famose di sempre, un “robot” ante-litteram che non si lascia archiviare come una bizzarra curiosità antiquaria, ma torna a interrogare l’umanità, quasi come se tra i suoi ingranaggi fosse nascosto il mistero originario della tecnologia.

Il “Turco” era un manichino di forma umana, tratti orientali e un turbante in testa, seduto con le gambe incrociate davanti a un mobile di legno sul quale era dipinta una scacchiera. Aprendosi, il mobile mostrava un groviglio di ingranaggi meccanici che, apparentemente, muovevano il manichino, e gli permettevano di giocare – quasi sempre vincendo – partite a scacchi contro avversari umani.
L’automa giocava di fronte a un pubblico incuriosito e stupito, e le sue sbalorditive capacità conquistarono presto fama internazionale, complice una vera e propria tournée che lo portò in diverse capitali europee, da Parigi a Londra, e gli procurò anche l’attenzione di Goethe; per poi spingerlo a varcare l’oceano, e a esibirsi in diverse città degli Stati Uniti. All’apice della notorietà, il giocatore passò, in cambio di una consistente somma di denaro, nelle mani di Johann Nepomuk Mälzel, musicista e appassionato di congegni meccanici, inventore del metronomo, amico di Beethoven. È in questo momento che, nel 1809, nel castello di Schönbrunn a Vienna, l’automa sfida e sconfigge Napoleone.

Il Turco giocatore di scacchi è quindi la prima forma di intelligenza artificiale? Non esattamente. Come qualcuno comincia a sospettare da subito, e come diventa evidente grazie a un articolo di Edgard Allan Poe pubblicato nel 1836 sul «Southern Literary Messenger», l’automa non è governato da un congegno meccanico: è costruito in modo da poter nascondere al proprio interno un abile giocatore di scacchi, che lo aziona e ne determina le interazioni apparentemente umane. Ma è proprio in virtù di questo espediente che l’automa, al di là del suo funzionamento, contiene il mistero dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Molti altri congegni all’epoca si aggiravano per l’Europa. Maghi che “rispondevano” a una serie di domande predefinite, suonatori di flauto, anatre starnazzanti e anatomicamente perfette, calcolatori automatici. Ma l’interesse destato dal giocatore di scacchi superava tutti questi prodigi evidentemente meccanici, in quanto l’automa riproduceva comportamenti, reazioni, procedure di pensiero non predeterminate e non programmabili a priori, quindi sorprendentemente simili a quelle umane. Il Turco nascondeva l’umano nell’intelligenza artificiale: letteralmente, in quanto un essere umano era nascosto tra i suoi ingranaggi; ma anche metaforicamente, in quanto anticipava il principio fondamentale della programmazione, che situa l’intervento umano all’origine di ogni algoritmo. Il giocatore di scacchi prefigurava anche fisicamente l’interazione umano-macchina, costringendo il corpo nascosto tra gli ingranaggi ad assumere una postura diversa da quella abituale, comprimendo, limitando e ridando forma ai suoi movimenti “naturali”.
Ad azionare il giocatore è ancora la volontà di potenza dell’essere umano, che promette però di estendersi alla tecnologia, di trasferirsi nella macchina. Proprio Poe, nella sua analisi del congegno, sottolinea suggestivamente come il funzionamento dell’automa non dipenda semplicemente dalla presenza di un corpo umano, ma dall’intelligenza e dalle intenzioni di una mente umana:

È assodato che le operazioni dell’Automa sono regolate dalla mente, e da essa soltanto. Cosa, del resto, matematicamente dimostrabile a priori. L’unico interrogativo quindi rimane quello del come l’agente umano possa intervenire.

Poe si riferiva al funzionamento tecnico dell’automa, alla sua anatomia, ma la domanda finale, trasportata nel contesto dell’attuale presa tecnologica sulle attività umane, sembra prolungare l’interrogativo: come e quanto la mente umana si nasconde nell’ingranaggio del nostro presente? Quale la sua posizione nel funzionamento del grande automa dell’intelligenza artificiale diffusa? La mente umana è ancora in controllo sull’automa? Oppure l’intelligenza artificiale sta per sopravanzare e soggiogare l’umano?
Ricostruendo il congegno segreto dell’automa per via induttiva, a partire dal suo funzionamento visibile e dall’analisi dei suoi comportamenti, Poe nota che quasi sempre è la sua imperfezione a svelarne la natura umana. Un vero automa, ad esempio, avrebbe vinto sempre, non avrebbe perso alcune partite come è capitato invece al Turco:

Una volta scoperto il principio in base al quale una macchina può giocare una partita a scacchi, sarebbe facile metterla in condizioni di vincerla; e, sempre in base allo stesso principio, di vincerle tutte – di battere, cioè, qualsiasi avversario. Un attimo di riflessione sarà sufficiente a convincere chiunque che costruire un congegno in grado di vincere sempre non presenta certo maggiori difficoltà, sotto il profilo meccanico, che costruirne uno in grado di vincere una sola volta.

Poe individua nella fallibilità della macchina il principio umano che la governa, e allo stesso tempo indica la direzione evolutiva dell’aumento esponenziale della potenza di calcolo delle macchine, la loro necessaria promessa di correzione dell’imperfezione antropomorfa. Proprio mescolando ambiguamente capacità tecnica e intelligenza umana, il barone von Kempelen inventava l’intelligenza artificiale. Le cui tappe evolutive fondamentali non a caso continuano a giocare la stessa partita, a sedersi di fronte alla scacchiera del Turco: mentre creava il computer per decifrare i codici nazisti, Alan Turing immaginò una macchina in grado di giocare a scacchi, e negli anni Cinquanta Herbert Simon ne promise una che, entro dieci anni, avrebbe battuto il campione mondiale di scacchi. Ci volle un po’ di più: la Deep Blue, creata dalla IBM, sconfisse ripetutamente Kasparov nel 1996. E la famiglia delle macchine giocatrici discende fino al software AlphaGo progettato dalla Google DeepMind, capace di sconfiggere il più bravo degli umani nel gioco del go. Kasparov non smise mai di sospettare che da qualche parte ci fosse un trucco. E aveva ragione: l’intelligenza artificiale è un trucco, è il trucco che consente all’umano di nascondersi negli ingranaggi, e quindi di estendere e potenziare la propria intelligenza attraverso gli strumenti.

Alla fine della propria carriera, uno dei più prodigiosi giocatori di scacchi della storia, Wilhelm Steinitz, cominciò a soffrire di allucinazioni: pensava di emettere onde elettriche attraverso le quali poteva spostare i pezzi senza muovere il braccio; presumeva di poter telefonare telepaticamente, senza la mediazione degli apparecchi. Era diventato egli stesso la macchina in grado di portare la potenza di calcolo dell’intelligenza umana, che nel gioco degli scacchi raggiunge la sua massima tensione, alle sue estreme conseguenze: il potenziamento “magico” delle facoltà mentali. Steinitz intuisce che l’intelligenza umana, nel suo sforzo di superarsi perfettamente formalizzato negli scacchi, tende al superamento delle facoltà umane, tende a disumanizzarsi, e a farsi ingranaggio. Lungo questa ineluttabile inerzia, la macchina nella quale l’umano trasferisce la propria intelligenza diventa sempre più potente, fino a rendersi letteralmente imbattibile: proprio come aveva previsto Poe. A questo punto, l’essere umano diventa esso stesso il Turco, come rivela un episodio emblematico raccontato da Luciano Capone in un articolo pubblicato sul “Foglio” del 10 ottobre 2016.

Nel 2015 Arcangelo Ricciardi viene espulso dal Festival Scacchistico Internazionale di Imperia. La sua serie di vittorie contro avversari più quotati aveva destato sospetti, rafforzati dai suoi comportamenti anomali: non guardava la scacchiera, non si alzava mai, restava sempre con le braccia incrociate, non discuteva mai le mosse con gli avversari, come di prammatica tra gli scacchisti. Non si comportava come un umano, ma come una macchina.
Perquisito con un metal detector, viene smascherato: gli trovano addosso una microcamera e un ricevitore, attraverso i quali comunicava con un complice che gli dettava le mosse elaborate da un computer. La scena del Turco giocatore di scacchi sembra ripetersi, rovesciata: è la macchina a nascondersi dentro l’umano, e ad azionarlo. Ma la storia di Arcangelo Ricciardi è in realtà originariamente contenuta nell’intuizione iniziale di von Kempelen, è solo l’ultima combinazione di una ibridazione fondamentale tra natura e cultura, tra intelligenza e strumenti, che è il principio stesso di attivazione dell’essere umano: lasciarsi invadere dalle proprie protesi culturali, mettere la propria mente a disposizione degli ingranaggi che ha creato.

L’essere umano, fin dalla creazione, è sempre stato un automa, un hardware azionato dal software della sua intelligenza – che alcuni hanno chiamato anima; un groviglio di ingranaggi con nascosto dentro un abile giocatore di scacchi. Come scriveva Leibniz nella sua Monadologia, nel 1714:

Pertanto, il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera di gran lunga qualsiasi automa artificiale […]. Ecco, dunque, la differenza tra la Natura e l’Arte, vale a dire tra l’Arte divina e l’arte umana.

 

 

 

 

 

 

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