Daily War. Kraus, Bontempelli, Delfini

One hundred years ago, on November 11, was signed the armistice that ended the First World War. I propose here a reflection on the relationship between the war and the media system, as elaborated in literary texts.  

Nessuna poesia può essere l’immagine fedele del nostro mondo. La fedele, la tremenda immagine del nostro mondo è il giornale. È un pozzo di sapere. Non sa niente. Continua a voler sapere.

Elias Canetti, Il cuore segreto dell’orologio

 

Dormi ma senti frinire
remote
le rotative
rotanti nell’oscurità
per dare forma
all’aldiquà.

Valerio Magrelli, Didascalie per la lettura di un giornale

 

  1. Edizione straordinaria!

In una lettera del 29 luglio 1915 Karl Kraus scrive a Sidonie Nádherný che l’opera nella quale è impegnato comincerà con il «quotidiano, ineludibile, orrendo grido: Edizione straordinaria!». Il ritornello mediatico è il metronomo della guerra, e organizza la folla di voci anonime che si intrecciano sulla scena de Gli ultimi giorni dell’umanità. Il trauma bellico non solo è amplificato in tempo reale dalla sua rappresentazione mediale, ma è anche preparato e strutturato dalla tensione sociale alimentata dal sistema della comunicazione.

Nel suo saggio su Kraus, Walter Benjamin nota che il giornalismo, obiettivo della polemica di Kraus, viene assorbito dallo scrittore come modello formale, e sabotato dall’interno, attraverso la deformazione di stilemi e stereotipi La demistificazione che Kraus pratica nei confronti della convenzionalizzazione del pensiero e del linguaggio si risolve nell’assunzione del collage giornalistico come contrappunto strutturale e compositivo alle retoriche della stupidità sociale. La forma critica di Kraus è imitativa: egli cattura nel proprio discorso, modulandole come in un’esecuzione vocale, le parole comuni; si fa collettore del brusio sociale, per mostrarne la violenza latente. Kraus cita il giornale per riappropriarsi della parola, per sottrarre il linguaggio alla sua devitalizzazione. La citazione «chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, ma proprio per questo la richiama anche alla sua origine», scrive Benjamin.

Nel contesto semiotico profondamente interrelato del Novecento la scrittura letteraria sperimenta soluzioni stilistiche e forme testuali che si ibridano con le piattaforme espressive, i modelli formali e le strategie retoriche introdotte dai media, e in particolare, nella prima parte del secolo, dalla stampa periodica. «L’ibrido», ha scritto McLuhan, «ossia l’incontro tra due media, è un momento di verità e di rivelazione dal quale nasce una nuova forma», un urto che modifica le «frontiere che vengono a stabilirsi tra le forme».

Il gesto di Kraus istituisce dunque una omologia, e una mutua determinazione, tra le forme concettuali dei media e il tentativo di concettualizzare un’esperienza esorbitante come quella della guerra. La forma del mondo restituita dall’esperienza bellica e dalla sua trasmissione mediale è frammentaria, ripetitiva, caotica, contraddittoria, affollata di segni incomprensibili. Porta impressa una deformazione integrale dei paradigmi spaziali e temporali, che può essere verificata anche nelle trasformazioni che interessano le forme letterarie.

  1. La trincea urbana

Nel dittico di romanzi di Massimo Bontempelli La vita intensa (1920) e La vita operosa (1921), l’elaborazione cognitiva della guerra si imprime sulle forme della scrittura, innescando la disintegrazione della struttura romanzesca, e la rappresentazione di una tensione psichica diffusa, immanente alla “vita intensa e operosa” della città, surriscaldata dalla pressione semiotica dei media.

La vita intensa e La vita operosa raccontano le avventure e i pensieri di un reduce della prima guerra mondiale, flâneur in uno spazio urbano strutturato dalle forme concettuali della comunicazione. Il testo diventa una sorta di nastro magnetico che registra l’impronta della bellicizzazione dell’esperienza, scandita dalla violenza delle feroci quanto insignificanti emergenze quotidiane, e della nuova guerra determinata dalla lotta per la sopravvivenza interna al regime capitalistico. «Correva il primo anno del dopoguerra», è l’incipit che sancisce le coordinate temporali, sociali, psichiche entro le quali si svolgono le avventure narrate da Bontempelli nei dieci «romanzi sintetici» che compongono La vita intensa. Ma anche l’altra anta del dittico, La vita operosa, si apre con un ricordo militare, che istituisce esplicitamente una omologia tra la guerra e la sua prosecuzione con altri mezzi: il dopoguerra. La voce narrante parla di un manuale utilizzato durante l’addestramento militare, che illustrava le diverse possibilità di orientamento in uno spazio aperto, rappresentando un sapere che non deve andare disperso in tempo di pace. Anche la città del dopoguerra infatti richiede simili capacità di orientamento:

Quando, due mesi dopo l’armistizio, rientrai (come dicevamo allora) in Italia, mi sono trovato nella città di Milano, aperta campagna per le maggiori battaglie della vita, senza bussola, né orologio, né sole, né stelle. Ho girato dunque per la città respirando la vita e cercando affannosamente un albero per vedere da che parte sta il nord.

La città è il fronte, ma un fronte nel quale la guerra da combattere è «fare molti quattrini», secondo il refrain che percorre La vita operosa. Al reduce sono richieste nuove competenze strategiche per compiere la «guerreggiante conquista della vita».

La città protagonista dei romanzi di Bontempelli è il fronte dopo il fronte, è una «zona di fuoco». Allo stesso tempo lo spazio della città è uno spazio mediale, uno spazio strutturato e saturato dalle forme della comunicazione. Una dimensione aperta, esposta, relazionale, nella quale la psiche individuale è resa fortemente permeabile, soggetta all’interazione e all’aggregazione con le altre menti. Come ha spiegato McLuhan, il sistema dei media elettrici crea uno spazio di risonanza e di compresenza, è una convocazione collettiva dei gruppi umani che indebolisce la loro partizione interna in individualità definite. La prima guerra mondiale, del resto, è stata la prima guerra compiutamente di massa, in cui il valore dell’individuo è stato strutturalmente subordinato alla difesa degli agglomerati sociali.

Nei due romanzi di Bontempelli dunque agisce una «mente finzionale» modellata da questo spazio urbano mediatizzato, dalla dimensione esposta dell’interazione sociale. Lo spazio della città crea una mente collettiva che interferisce con le menti individuali, le determina, le attraversa. La vita intensa della città struttura una forma della cognizione socialmente distribuita, estesa, che si dispiega in una dimensione intersoggetiva. E si comporta come una super-narrazione, che non è generata da una mente individuale, ma include le menti individuali, fa delle menti i nodi del proprio procedere. La città è una narrazione che orchestra le intelligenze singole, organizza l’immersione dell’individuo nell’ambiente, struttura il flusso percettivo e semiotico che è l’esperienza del mondo. Il racconto della città diventa un dispositivo che non è utilizzato dalla mente, ma agisce sulla mente. La città intensa e operosa di Bontempelli dunque è un sistema cognitivo, è letteralmente dotata di una mente autonoma. È un’unità intermentale, la cui interconnessione interna è strutturata dalle regole d’ingaggio della guerra, e dalla pressione intercorporea dei media.

La pressione semiotica che si dispiega nello spazio della città prende le sembianze di voci disincarnate, di un ventriloquio emesso dalla città stessa. La città grida attraverso ogni suo rumore, ogni sua insegna, ogni sua apparizione, le parole d’ordine della vita moderna, che sono anche una volontaristica cancellazione del ricordo incombente della morte esperita nelle trincee:

La Volontà di vivere gridava dalle ruote delle carrozze e dalle campanelle dei tranvai. La commentavano gli strilloni dei giornali e i banditori davanti alle porte dei cinematografi.

C’è una voce demoniaca che accompagna costantemente il personaggio, e lo istiga ad agire: «Il Diavolo, che qualche volta giunge invisibile fino al mio fianco e all’orecchio mi consiglia certe malizie torbide, me ne suggerì una in quel momento». Il personaggio è parlato e agito da voci collettive, dalla stratificazione e accumulazione delle parole altrui. Assorbe la parola sociale, le formule e le sclerotizzazioni del linguaggio pubblico veicolate dai media, le espressioni tipiche del gergo pubblicistico: «Io m’ero svegliato quella mattina con una frase in capo, venutavi chi sa donde, ed era questa: “La standardizzazione del ferro…”».

Alle voci incorporee, alle allucinazioni uditive che attraversano la città è affidata l’interconnessione sociale: le voci sono il collante fantasmatico che costringe le persone a interagire, in una perpetua trasformabilità delle sostanze, nell’instabilità e nell’inconsistenza degli stati psichici e fisici. La penetrabilità dei corpi prodotta dall’ambiente mediale radicalizza lo choc baudelairiano della folla, l’esperienza del contatto con la massa urbana.

La potenza della folla è violenza ed è riemersione della guerra in tempo di pace. Lo scherzo organizzato dal personaggio ai danni di una tabaccaia si trasforma in una tragedia cruenta, un triplice omicidio e suicidio che avviene nell’orgia di una «folla ululante», ed echeggia tra l’altro la cronaca nera che diventerà strutturale nella quotidianità delle società della “pace”, come molecolarizzazione interna della guerra. Le situazioni collettive sono percorse da una violenza latente. La folla è pregiudizialmente ostile, è sempre potenzialmente la fonte di un pericolo, come in una giungla. L’altro è il portatore di una minaccia mortale. Uno dei romanzi de La vita intensa si conclude con una scena di quiete, di rilassamento dopo la frenesia delle peripezie quotidiane. Il protagonista si concede il piacere dell’ultima sigaretta prima del sonno, ma un passante lo urta e gli fa cadere la sigaretta sulla strada bagnata. La reazione a questo evento è una disperazione cosmica, il senso di una insostenibilità dell’esistenza che conduce a un fumettistico suicidio:

Non seppi sopportare il pensiero della disavventura presente e l’aspettazione di un domani da cui mi separavano poche ore notturne; e venni in una così cupa e gelata disperazione, che tratta una rivoltella mi sparai tre colpi alla tempia, rimanendo sull’istante cadavere.

La morte è sempre in agguato nella trincea urbana, e il personaggio ritrova la desolazione della guerra anche nel caffè intellettuale che era solito frequentare, luogo simbolico dell’elaborazione collettiva e pubblica dell’esperienza e delle forme della modernità. Il caffè è un microcosmo del pensiero, una città nella città, un’unità intermentale che rivela l’omologia tra lo spazio dell’interconnessione mediale e culturale, e lo spazio dell’interconnessione violenta, dello scontro cruento e della guerra. Quando la voce narrante torna da reduce a visitare il caffè, a uno sguardo obliquo lo spazio della comunità e della comunicazione, come per un’anamorfosi, si rivela una trincea:

C’erano molte persone, e un colore diverso da quello d’un tempo. […] Appena entrato, senza che sùbito mi rendessi conto della causa, mi sorprese un ricordo del fronte: rividi in un lampo stendersi Valdirose fra Tarnova e San Marco, dolce valle in un’aria d’autunno, recisa duramente da un reticolato che s’arrampicava per una china ripida. Invece ero in un caffè, che ha nome di ritrovo elegante.

 

  1. Notizie dalla fine del mondo

Le modalità discorsive e le strategie di organizzazione delle informazioni elaborate dalla stampa periodica rappresentano per Antonio Delfini un modello, seppure conflittuale, di accesso alla realtà, una possibilità di comprensione e trascrizione dell’esperienza. Il giornale per Delfini è una metafora pervasiva della forma caotica assunta dal mondo, della labilità della sua consistenza e delle sue strutture, della compresenza e della simultaneità degli avvenimenti. Allo stesso tempo offre un repertorio espressivo, una griglia concettuale che rende praticabile la registrazione e la ricostruzione narrativa, scandita da punti di riferimento logici e cronologici, dei frammenti altrimenti dispersi dei quali si compongono l’esistenza individuale e la storia collettiva.

Nelle Poesie della fine del mondo, pubblicate da Feltrinelli nel 1961, Delfini si serve di notizie e frammenti del discorso sociale veicolato dai media, rifunzionalizzato non più seguendo la tecnica del collage, come aveva fatto precedentemente, ma assorbendo i materiali mediali nel discorso poetico, e nascondendo le suture tra reimpiego e invenzione. Nella poesia La prima notte di nozze si legge:

Pensieri attuali rispondo:
Non si tocca statuto a Berlino.

Dove il secondo verso è certamente un titolo giornalistico, e il primo una rivelazione metapoetica, la condensazione dei processi cognitivi che presiedono alla composizione della poesia: Delfini concepisce pensieri attuali, sui quali interferisce il flusso dei segni che danno forma all’attualità, pensieri deformati dalle retoriche e dalle costrizioni espressive dei discorsi “correnti”. Le poesie di Delfini provengono da una dimensione colonizzata dall’immaginario e dal linguaggio del discorso sociale, attraversata da tutte le interferenze semiotiche generate dalla fase acuta della modernità tecnologica. La scrittura poetica è forzata a seguire i ritmi e i modi di produzione dell’apparato tecnico-scientifico e delle sue manifestazioni retoriche: «Tutti i giorni una poesia dalla galera della tecnica nuova», scrive Delfini in uno dei suoi quaderni degli anni Cinquanta. Lo schema che programma la scrittura proviene dal repertorio esperienziale della comunicazione quotidiana.

La forma dei media quotidiani compendia le caratteristiche psichiche della condizione umana nell’età elettrica. Nel «baratro pauroso delle notizie dei giornali», scrive Delfini,

l’anima si sperde in sogni che non hanno e non ricevono simpatia. Si è piccoli: poiché si vorrebbe esser tutto ciò che fanno gli altri uno per uno.

La stampa periodica non si limita a influenzare l’opinione pubblica o il costume: imprime le proprie strutture nelle abitudini cognitive dell’uomo, modella la mente e le modalità della sua interazione col mondo.

La condivisione di una narrazione del quotidiano tuttavia non riesce a schermare integralmente gli individui dal contatto con la pressione psichica esercitata dalla massa dei segni e dei fatti pubblici. Al contrario: incorporato nell’apparato tecnico-industriale, il giornale diventa uno strumento del compiersi dei fenomeni collettivi, un’emanazione del potere politico-economico che lo utilizza per indirizzare opinioni e comportamenti, e in particolare, secondo McLuhan, per surriscaldare le passioni, alimentare la tensione sociale, e in definitiva predisporre il sentimento comune alla guerra. I fatti quotidiani avanzano al ritmo e alla musica di una grande parata civile che è sempre sul punto di trasformarsi in una marcia militare. La parata che Delfini descrive nel suo 10 giugno 1918 (un racconto dal titolo “giornalistico”, che rima con il joyciano 6 giugno 1904) è un evento pubblico che, a partire dal funerale di un garibaldino, produce un crescente surriscaldamento patriottico, e immette direttamente nel clima della guerra, con la rappresentazione rituale della partenza dei soldati per il fronte, non troppo lontana da quella utilizzata da Céline come innesco del suo Voyage au bout de la nuit.

Nel vortice della parata il bambino protagonista del racconto di Delfini sperimenta sul proprio corpo, senza mediazioni intellettuali, l’emozione della guerra mediale, lo choc della prima guerra tecnologica, combattuta nelle trincee della comunicazione, agente di profonde modificazioni percettive, fisiologiche, memoriali; trauma che determina, secondo l’intuizione di Benjamin, l’afasia del narratore, l’indicibilità dell’esperienza, surrogata dall’immediatezza dell’informazione, e quindi ricostruibile solo attraverso l’impronta, la traccia mediale che lascia sulla psiche.

Il Novecento ha elaborato questa frattura originaria, approfondita e complicata dalla virtualizzazione e parcellizzazione dell’esperienza, attraverso la metafora concettuale della frammentazione mediale, della periodicizzazione del mondo, che viene non soltanto esperito, ma letteralmente creato al ritmo sincopato e ripetitivo dei media e, nel caso specifico di Delfini, della stampa. La discontinuità del reale viene metaforizzata dal rispecchiamento tra la frantumazione bellica e la sua rappresentazione mediale. E così si può tornare a Karl Kraus che sintetizza il rombo della guerra nel «quotidiano, ineludibile, orrendo grido: Edizione straordinaria!», le due parole pronunciate dalla prima delle moltissime voci che si intrecciano sulla scena in cui si consumano gli ultimi giorni dell’umanità. Annunciati da uno strillone, proprio come le poesie della fine del mondo sono imbevute di retorica mediale: sia Kraus che Delfini descrivono un’apocalisse che è prima di tutto comunicativa. In una breve narrazione di frammenti stereotipati di esistenza, quasi un catalogo di notizie di cronaca, intitolata La vita e pubblicata su «Oggi» nel giugno 1933, Delfini scrive:

Si esce al mattino fischiettando, si compra il giornale, si legge ch’è scoppiata la guerra e giù milioni di morti.

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